9.3.10

Togliatti a Perugia 1. Dopo la rivolta in Ungheria.

Perugia, Palazzo dei Priori - L'ingresso alla Sala dei Notari

Il comizio del "migliore" e la replica di Nenni
Nel 1956 la rivolta d'Ungheria, che aveva una delle sue basi proprio nelle fabbriche, e la durissima repressione dell'esercito sovietico rivelano la fragilità della destalinizzazione avviata del XX Congresso del Pcus. La grande riforma del sistema sovietico e delle società post-capitaliste dell'Est europeo non ci sarà nè allora nè dopo e i partiti comunisti, incluso il Pci, saranno obbligati a un rigido allineamento. Nel novembre del 2006 "micropolis" uscì con un inserto speciale sull'Ungheria che contiene una rievocazione, da me curata, dei primi giorni di novembre di 5o anni prima a Perugia. Nel capoluogo umbro il fermento era maggiore che altrove, poichè era la città scelta da Togliatti per la prima uscita pubblica dopo la tragedia di Budapest. Il Comune era rosso, soprattutto per il voto delle frazioni rurali, ma nel centro cittadino era nettamente maggioritaria la presenza dei ceti borghesi, di orientamento conservatore e forse sulla loro simpatia contavano i gruppi neofascisti per una prova di forza. Il comizio di Togliatti si tenne l'11 novembre, senza incidenti, alla Sala dei Notari di Palazzo dei Priori. Due giorni dopo uscì sull' "Avanti", una replica bella e forte di Pietro Nenni. Oltre alla mia rievocazione ripubblico qui l'articolo del leader socialista e una testimonianza dell'avvocato Francesco Innamorati, che nel 56 era esponente di prima fila del Pci perugino. (S.L.L.)

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Palmiro Togliatti
Il comizio di Perugia
Se si sfogliano le pagine di Perugia de “Il Messaggero” e de “La Nazione” dei giorni dell’Ungheria si avverte una sorta di schizofrenia: da una parte le cronache quasi mai nere della buona e modesta provincia (una premiazione, la colletta per un invalido, la Fiera dei Morti), dall’altra resoconti infiammati di manifestazioni ed assemblee studentesche e delle iniziative anticomuniste di esponenti locali della Dc o del Msi. Sulla pagina regionale de “l’Unità”, negli stessi giorni, si può avvertire da una parte l’isolamento del Pci, dall’altra l’ansia di rassicurare e ricompattare. “L’Unità” del 30 ottobre, ad esempio, racconta di un perugino convegno di propaganda,con relazione di Maschiella e conclusioni di Ingrao. Il resoconto è concentrato sul concetto di “tenere il punto”. Apprendiamo che nel dibattito erano intervenuti in tanti, perfino due liberi pensatori come Orfeo Carnevali e Pio Badelli, ma dalla lettura sembra che tutti fossero d’accordo, senza differenze o sfumature. La stampa di destra, negli stessi giorni, parla di assemblee studentesche e di riuscite manifestazioni, frammezzando i resoconti locali con qualche bufala, come la morte tra gli insorti del calciatore Puskas, per “La Nazione” certa.
Il linguaggio si fa più acceso dopo l’intervento sovietico del 4 novembre. L’indomani “La Nazione” di Perugia titola Tristo isolamento del partito di Togliatti, il 7 dà conto di una manifestazione con “scambi di epiteti fra dimostranti e comunisti”. “Il Messaggero” invece inneggia a una Vibrante manifestazione della gioventù studentesca. Il tema del contendere non è solo l’Ungheria, ma la presenza a Perugia di Togliatti. Da tempo era stata programmata la sua venuta per commemorare la Rivoluzione russa nel giorno di domenica 11 novembre, ma questa è anche la prima uscita pubblica del capo comunista dopo i nuovi “fatti d’Ungheria”. All’assemblea studentesca del 7 alla Sala dei Notari parlano universitari che faranno carriera come Angelini e Menicacci; è poi Modena, al tempo liceale, a proporre il documento finale: “No a Togliatti a Perugia. Gli si neghi la Sala”. Sul tema l’indomani presentano mozioni in Consiglio comunale democristiani e missini. Replicano per il Pci Gino Galli, per Psi-Psdi-Up il “maestro Cecati”, che, pur contrario all’intervento, difende il diritto di Togliatti proprio in nome della libertà.
Il comizio si svolgerà in un’atmosfera surreale, che rievochiamo in queste stesse pagine con il contributo di Francesco Innamorati. Dal resoconto su “l’Unità” il discorso ci pare brutto, a volte pedantemente scolastico, a volte vacuamente retorico. Un breve passaggio è dedicato a Nenni che ha chiesto il ritiro dell’Armata rossa: anche lui – dice Togliatti – nella Spagna repubblicana avrebbe desiderato un intervento straniero. L’indomani compare su “l’Avanti” una fulminante replica (certamente di Nenni, seppure non firmata) che qui riportiamo, anche come esempio insigne di giornalismo politico. (s.l.l.)
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Modena, 1953 - Nenni e Togliatti in treno verso Mosca per i funerali di Stalin

La Spagna non c’entra
Il compagno Togliatti s’è trovato domenica, celebrando a Perugia la Rivoluzione d’Ottobre, davanti a uno scoglio insuperabile.
Celebrava un’autentica e grande Rivoluzione di operai e di popolo che dimostrò di che panni vestiva schiacciando i generali bianchi malgrado le armi e l’intervento straniero. Ancora nell’ultima guerra la Rivoluzione d’Ottobre viveva nell’indomito spirito degli operai e dei contadini sovietici che lavoravano a Mosca, a Leningrado, nell’inferno di Stalingrado alternando al tornio e all’aratro il mitra.
Tutt’altra cosa del gruppo dirigente comunista ungherese che avendo completamente perduto la fiducia degli operai e del popolo si illude di potersi mantenere al potere dietro i carri armati sovietici. Per difendere l’intervento sovietico, che sembra esclusivamente dettato da politica di potenza e che minaccia di soffocare la fiamma del socialismo, e certamente ne ritarderà lo sviluppo, Togliatti si è richiamato alla Spagna del 1936-39. “Noi – ha detto – i socialisti, i democratici, i repubblicani, il compagno Pietro Nenni invocavamo (nel 1936) l’intervento di forze armate nella Spagna repubblicana e denunziavamo la politica di non intervento…”.
Esatto che nel 1936-39 noi abbiamo condannato non il non-intervento, ma il non-intervento a senso unico. C’era, in confronto con l’Ungheria, una differenza non certo di poco conto. C’era l’intervento in Spagna delle divisioni di Mussolini e Hitler. C’erano, dall’altra parte, la Francia e l’Inghilterra le quali rifiutavano non già di intervenire, ma di impedire l’intervento nazi-fascista e di fornire armi al legittimo governo spagnolo. C’era l’Unione Sovietica la quale, nonostante l’intervento nazi-fascista, non interveniva (nessuno glielo chiese mai), ma aiutava il governo di Madrid e di Barcellona anche se in misura inadeguata. La Spagna quindi non c’entra. Né c’entrano la pace e il socialismo. L’intervento sovietico offende tutte queste cose e a noi pare che si sarebbe potuto più giustamente celebrare il 7 novembre chiedendo all’Urss di ritirare subito le truppe di occupazione in Ungheria. Proprio nell’interesse del socialismo, della democrazia e della pace.
(“Avanti!”, 13 novembre 1956)
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Budapest, novembre 1956 - Un'immagine della rivolta
Come acqua sul marmo
Francesco Innamorati, perugino, è avvocato di lungo corso, ma negli anni Cinquanta, dice lui stesso, esercitava poco. Era esponente di spicco del Pci perugino, impegnato in vari ruoli, tra cui quello di vicesindaco, partecipe di tutte le decisioni più importanti. La conversazione si apre sulla scorta dei verbali del comitato federale di Perugia, svoltosi nell’agosto ’56, per lanciare il congresso. I suoi interventi risultano tra i più decisi nel sollecitare la presa di distanza dai metodi dello stalinismo.
Difende con forza, in polemica con Caponi, la riammissione di Pio Baldelli e il diritto al dissenso, vuole che si tiri una lezione da Poznan. Gli leggo una sua frase riportata in quei verbali, pubblicati nel volume I comunisti umbri: “Sappiamo che è una provocazione inserita nel malcontento operaio, però, perché si dice prima viene la provocazione e poi il malcontento?”. “Dissi di più, dissi che non c’era bisogno di essere comunisti per rispettare orari decenti e riposo domenicale”.
Su Baldelli commenta: “Successivamente uscì dal partito, per rientrare. Un giornale umoristico di destra era giunto a parlare di una porta girevole impiantata in federazione per farlo entrare e uscire in continuazione. Aveva una sensibilità sociale affine alla nostra, di comunisti, ma non era come noi. Vicino a Capitini, durante la Resistenza, a differenza di molti di noi aveva scelto la non violenza invece che la lotta armata. Scelta nobilissima, ma sono cose che contano: non aveva la nostra stessa solidarietà interna, lo stesso spirito di partito”.
Sul ’56 in Umbria è categorico: “Il dibattito riguardava il gruppo dirigente, non il corpo del partito. Su di esso tutti gli eventi di quell’anno, dal Rapporto segreto all’Ungheria, passarono come acqua sul marmo. Era un partito contadino, chiuso e poco informato. In una sezione della provincia ebbi uno scontro feroce su Stalin con un mezzadro anziano, un vero patriarca”. Parliamo infine degli avvenimenti in città nei giorni della rivolta ungherese e della repressione. “Perugia – spiega Innamorati – era una città fascista, anche prima del fascismo. Voglio dire una città di proprietari terrieri, di impiegati e professionisti che erano anche proprietari terrieri e odiavano il mondo contadino. E noi eravamo il partito dei contadini. Attraverso le amministrazioni locali avevamo allargato il consenso, ma in quei giorni eravamo isolati… Aspettavamo Togliatti per l’11 novembre e contro di noi c’erano non solo le proteste degli studenti, ma il gelo della città. Un nostro simpatizzante, un ufficiale giudiziario, mi disse chiaramente che sarebbe rimasto a casa a mangiare la salsiccia”. Tambroni, che era ministro degli Interni nel governo Segni si vantò che sarebbe stato lui a proteggere Togliatti in visita a Perugia. “Fu quel che accadde. La mattina avevo notato strani figuri in città, fascisti probabilmente. Per entrare nella Sala dei Notari si passò attraverso tre filtri. Io introdussi Togliatti che parlò nella sala pienissima, con compagni venuti da tutta la provincia. Ma quelli che protestarono contro di lui, a grande distanza da noi, venivano anche da altre regioni. Era un appuntamento nazionale”. Ho letto dell’adesione al manifesto dei 101 di Granata e Maretici. Ci fu un dissenso degli intellettuali? “Granata credo fosse già a Roma e l’uscita della Maretici dal partito ebbe, nel mio ricordo, altre ragioni. Ma poi chi erano qui gl’intellettuali, i produttori di cultura legati alla sinistra? Pio Baldelli senz’altro, Giuseppe Granata, Ottavio Prosciutti, un grecista. Noi non eravamo intellettuali. Intelligenti forse, ma non intellettuali”.

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