24.3.10

Attila Jozsef. Due poesie e un frammento narrativo.

Attila Jozsef (Budapest, 1905 – Balatonszárszó, 1937)

Un’infanzia infelice. Una giovinezza ribelle. Qualche segno di schizofrenia. Una fine tragica: sotto un treno sul binario ove s’era sdraiato. Forse un suicidio. E’ indicato come “uno dei più grandi poeti di tutti i tempi”. Immagino che sia difficile rendere in italiano la sua poesia che, a detta di storici e critici, riesce ad essere sintesi di poesia moderna e patrimonio folclorico, una sorta di equivalente lirico di Béla Bartok. E poi c'è il rapporto con il marxismo, con Croce, con la psicanalisi.

Una buona antologia poetica è quella degli Oscar Mondadori. La raccolta di prose che conosco risale al 1988. Con il titolo La coscienza del poeta venne pubblicata da Lucarini per la cura di Beatrice Tottossy. Contiene saggi teorici, memorie, lettere. Particolarmente interessanti quelle a Flora Kosmutza e a Edit Gyomroi, la psicanalista che lo ebbe in terapia.

Metto qui a disposizione due poesie e un frammento narrativo. (SLL)

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Due poesie

1.

Nello stretto cortile, lentamente,

come dal fondo di un pozzo, ora la luce

ritira la sua rete.

Già l’ombra ha sommerso la nostra cucina.

Sui cenci oleosi del cielo

si ferma e sospira la notte;

poi scende dalla città nei sobborghi,

poi si incammina attraverso la piazza

ed accende un po’ di luna, che arda.

L’umidità fruga nel buio,

fa piombo la polvere della strada.

La bocca dell’osteria vomita una luce guasta;

la sua finestra ha un riflesso di pozzanghera.

Tutto è umido, tutto è pesante.

La muffa disegna la carta

geografica dei paesi della miseria.

Il tuo vento umido e appiccicoso è come

lo sventolio delle lenzuola sporche,

o notte!

Penzoli dal cielo come sulla fune il cotone sfilacciato,

come sulla vita la tristezza,

o notte!

Grave è la notte! Pesante è la notte!

Così dormo, o fratelli, pure io.

Che la sofferenza non morda l’anima nostra,

né il corpo ci pizzichino le cimici.

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2.

Ti lacero come la bufera il bosco.

Devi gemere e stormire. Bada: è un combattimento.

Non spezzarti, perché le mie lacrime amare

non sgorghino sul tuo tronco mutilato.

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Il desiderio prosciuga, come la calura il ruscello.

L'amore scaturisce sempre più dal profondo.

Non vorrei calare, perché le tue amare lacrime

non formino nel tuo grembo sfrenato un mare.

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Acqua fredda sul vetro caldo

Nella mia infanzia un giorno sentii dire che se si schizza acqua fredda sul vetro caldo, questo si spacca. La sera stessa, non appena mia madre ebbe messo i piedi fuori della cucina, mi detti a verificare la verità di tale tesi. Schizzai un pochino d’acqua sul vetro della lampada. Il vetro si ruppe, io m’impressionai, mia madre a sua volta rientrò. Sorpresa e scossa, mi investì: “Tu, tu… perché hai rotto il vetro della lampada?”. Io ascoltavo il rimprovero a occhi bassi e mi prendevo, sempre più ostinato il diluvio degli schiaffi. Quel silenzio particolarmente cocciuto doveva irritare mia madre. “Perché hai rotto la lampada?”. Cosa potevo rispondere? Sarebbe sembrata la bugia più spudorata se avessi detto la verità: “non ho rotto io il vetro della lampada!”. Si era spaccato da sé perché “se si schizza acqua fredda sul vetro caldo, questo si spacca”. Vero che l’acqua fredda l’avevo schizzato io, ma non perché volessi rompere il vetro, bensì per vedere se era vero quello che avevo sentito e che mi aveva fatto tanta curiosità da indurmi a verificarlo. La punizione la sentivo molto ingiusta…

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